Non esistono bambini pigri

Molti invii di bambini cattivi comunicatori sono rimandati per la convinzione che i piccoli, pur possedendo potenzialità linguistiche e fonoarticolatorie, non le mettano in pratica per una forma di pigrizia.

Questa evenienza merita una riflessione puntuale per le implicazioni cliniche che questo tipo di atteggiamento produce e, soprattutto, ci spinge a interrogarci  su quale consapevolezza, conoscenza e aspettativa i non addetti ai lavori e alcuni pediatri e operatori dell’infanzia abbiamo maturato in relazione all’acquisizione delle abilità relative alla comunicazione, alla nutrizione, alle competenze sociali.

Pigrizia? Ma dove?

Che un bambino, per altro apparentemente sano ma con una inadeguatezza in una delle abilità prima menzionate, venga definito dal proprio pediatra pigro mi scandalizza. Che sia “pigro” un piccolo che parla a bassa intelligibilità, che non è in grado di gestire il cibo nella bocca è un’idea del tutto irrealistica. 

L’aggettivo pigro deriva dal latino piger, a sua volta correlato all’aggettivo pinguis, grasso e al verbo pigere, essere spiacevole, meritevole di vergogna, dare fastidio.

L’aggettivo (e il sostantivo che ne deriva “pigrizia”), oltre ad avere in sé la radice latina, è portatore della radice greca della parola parésis, paralisi, immobilità, come è efficacemente testimoniato dal termine derivato in lingua francese: paresseux, paresse – pigro, pigrizia.

Nella parola italiana “pigrizia” e nella aggettivazione “pigro” risultano compresenti quindi due concetti associati: la lentezza sino alla immobilità e la spiacevolezza. 

Pensiamo prima di dare definizioni

Prima riflessione. Nel definire “pigro” un piccolo che non evolve verso la conquista di una tappa evolutiva attesa, inevitabilmente significhiamo che egli rifugge dallo sforzo per naturale accidia o che esegue il movimento con lentezza e senza piacere per eccessiva impedenza del sistema.

Seconda riflessione. La radice, comune al verbo pigere (essere increscioso, spiacevole), aggiunge alla constatazione di pigrizia un giudizio valoriale negativo.Da questo l’assunzione di un atteggiamento di colpevolizzazione nei confronti del  piccolo per la supposta “non volontà” a produrre uno sforzo che lo potrebbe portare a livelli di normale abilità.

Naturale che, informato da queste concezioni spesso suggerite dal pediatra, il genitore non tenda a chiedersi le ragioni della mancata abilità, in quanto tale ragione è già esplicitata nella aggettivazione stessa del bambino. Il piccolo, proprio in quanto “pigro”, risulta l’unico “colpevole” e anche l’unico probabile risolutore della  disabilità, purché si impegni in modo volonteroso.

Non si comprende allora perché, pur a partire da una concezione dell’umano così distante dal vero, non ci si attivi comunque in modo congruente, iniziando un “training della volontà”, una riabilitazione “al volere, decidere e agire”. All’opposto, nella quasi totalità dei casi, identificato un piccolo come pigro, viene attivata una sospensione del giudizio e dell’appoggio, nell’attesa che il bimbo, uscito dalla propria accidia, si affretti da solo e senza aiuto verso il raggiungimento delle abilità (con quali strumenti, strategie e supporti, non è precisato). In altre parole, definito “pigro” un bambino, non si procede oltre.

Può un bambino essere pigro?

Ma nell’età evolutiva come è concepibile la pigrizia? Non esiste infatti bambino che non sia geneticamente determinato a comunicare, a nutrirsi, a conquistare una autonomia motoria. Non si tratta di volontà ma di predisposizione biologica della nostra specie, sulla quale nulla vale il criterio di lentezza e pigrizia ma il solo criterio di inabilità.

Il bambino che non riesce a comunicare per suoni e per parole, che non acquisisce abilità deglutitorie con la maturazione dell’apparato, non è pigro, è inabile. In altre parole non è un competente che si astiene dal fare ma un incompetente che fa solo ciò che può.

 

Questa prospettiva cambia naturalmente il criterio di approccio.

1. Non ci si proietta più in un futuro nel quale le abilità compariranno, aspettando il quale il solo atto richiesto è l’attesa.

2. Non si colpevolizza (anche se solo inconsciamente) il bambino,  con il corredo di comportamenti derivati:

  • chiedere di ripetere con insistenza la parola che non si comprende perché pronunciata a bassa intelligibilità, quasi che l’abilità prassica sia ottenibile non per strategie alternative ma per ripetizione dello stesso schema errato;
  • chiedere di fare bene, di fare meglio, magari aggiungendo commenti inopportuni “dai che lo sai fare, fai bene che sei grande” che umiliano, confondono;
  • fingere di con capire, credendo così di spingere a fare meglio, ma in realtà demotivando profondamente chi, al massimo della propria espressività e del proprio impegno, non può che constatare l’insuccesso dell’operare.

Un bambino fa il meglio che può

Un bambino che non è in grado di usare la propria bocca per pronunciare le parole della lingua, che perde la saliva, che presenta difficoltà nel masticare e nel deglutire il cibo e che, contemporaneamente, non presenta macrodevianze del comportamento sociale, segni di patologie organiche associate e l’anamnesi remota del quale è negativa, non è un bambino pigro, è un bambino disprassico orale  o portatore di un disturbo fonologico che sta facendo ciò che è in grado di fare, come sa fare. al meglio delle proprie possibilità.

 Di fronte a un tale bimbo l’atteggiamento adeguato è dirsi: “bene, se questo è ciò che produce, questo è il massimo che sa produrre; il mio compito è mantenere primariamente la sua spinta comunicativa, aiutandolo per quanto posso a fare meglio” .

Che fare

Il comportamento che ne può derivare è del tutto diverso da quello messo in atto a partire dalla colpevolizzazione sistematica del “pigro”.

  • Ogni uscita verbale riceve in risposta l’accoglienza comunicativa. Il piccolo sa che la propria comunicazione, anche se imprecisa, è comunque accettata festosamente dal genitore, in quanto “dice del bambino” e mai verrà sottoposta ad analisi e critica.
  • Anche se non sì è compresa la stringa linguistica, viene comunque  comunicato al bimbo, anche in modo non verbale, che l’intenzione comunicativa è andata a buon fine, che un messaggio è in ogni caso arrivato, a un livello di adeguatezza accettabile, sul quale eventualmente è necessario intervenire ulteriormente in senso interpretativo.
  • Non è sottolineando l’errore che si educa alla comunicazione, ma fornendo il modello corretto. La ripetizione dell’errore non conduce alla sua soluzione, non indica infatti una strategia alternativa ma ribadisce l’inadeguatezza espressiva. La riproposta di un modello corretto, meglio se inserito in una frase di risposa, breve, e in modo ridondante, fornisce invece una strategia alla quale aggrapparsi per una futura prestazione migliore.

 

Allo stesso modo va aiutato in bambino che presenta inabilità in campo deglutitorio.

Fatta eccezione per alcuni piccoli, disappetenti o che hanno subito interventi dolorosi a livello orale e che mantengono un alto grado di diffidenza per il cibo, l’essere umano è biologicamente determinato a trarre piacere dall’alimentazione e a ricercarne di maggiore attraverso una abilitazione naturale a gestire alimenti a sempre maggior complessità e con gusti sempre più accattivanti.

Un bambino “pigro” in senso alimentare è spesso in realtà un cattivo deglutitore, cioè un cattivo trasformatore del cibo in bolo. In questo senso ogni facilitazione della dieta, ogni stasi ad abitudini alimentari tipiche di età inferiori rispetto alla anagrafica, impediscono al piccolo qualsiasi maturazione prassica. Agire così è come proporre a un bimbo che presenta linguaggio a bassa intelligibilità una interazione linguistica che sia gravata dalle stesse devianze di quelle del bambino: non solo si impedisce la correzione dell’errore (secondaria alla presentazione del modello corretto) ma lo si conferma e stabilizza.

Accanto alla concezione che alcuni bimbi “poco abili” siano in realtà soltanto “pigri”, convive la convinzione che un bimbo debba essere costantemente protetto, facilitato e aiutato, non incrementandone le competenze ma riducendo per lui le occasioni di confronto, mediandogli le difficoltà e gli ostacoli.

Un’educazione fondata sull’attesa che qualcosa maturi e che il bimbo dimostri infine quella “volontà che gli manca” sviluppa, inconsapevole dell’assurdo,  un atteggiamento di maternage iperprotettivo e demotivante la scoperta del nuovo e del complesso.

Ci si riduce così a una contraddizione insanabile attendendo che un bimbo che non va maturando esperienza del mondo possa acquisire abilità svincolandosi da quella  pigrizia che la passivizzazione stessa, se non ha indotto, almeno mantiene. 

 

Il desiderio di fare, dal quale nasce la volontà dello scoprire e dello sperimentare non può che fondarsi sulla curiosità del nuovo.

 

Chi è convinto della accidia comunicativa di un piccolo lo iperstimoli quindi, non lo limiti, pena il cadere in una contraddizione insanabile.

La natura stessa dell’umano per fortuna ci viene in aiuto traendoci dalla prigione logica nella quale saremmo  tentati di rinchiuderci. Non esistono bimbi pigri, esistono bimbi poco abili. Ogni bimbo è spinto dal proprio corredo biologico a comunicare e a nutrirsi nel modo migliore che sa fare, anche se nella ricerca di modalità soddisfacenti, può mettere in atto ulteriori devianze.  Non la colpevolizzazione, né l’attesa, né tanto meno la iperprotezione possono valere come pratiche di aiuto ma il modellamento domestico, la diagnosi precoce e l’invio nei tempi opportuni in terapia logopedica.

Uno dei compiti del logopedista è lottare contro la “favola dei bimbi pigri”

 

 

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