Cosa intendiamo per funzione volontaria

La parola funzione, nel linguaggio, comune viene spesso equivocata con la parola finalità, senza accorgersi che così facendo si attua un uso restrittivo del termine.

Funzione ha infatti, in medicina, un significato più ampio, comprendendo, oltre al concetto di scopo, anche quello di modalità nella quale tale scopo viene raggiunto. Nel termine è quindi intrinseco il riferimento alla fisiologia, cioè al “come funziona la funzione”, mi si perdoni l’allitterazione, che per altro svela appieno l’etimologia.

Funzioni involontarie e volontarie

Quando ci riferiamo a una funzione espletata da un organo, ad esempio la ghiandola tiroide, pensiamo a come e perché l’ormone viene secreto (dalle influenze ipofisarie al suo significato di risposta all’ambiente interno ed esterno nella ricerca della omeostasi) e, insieme, a quali sono gli effetti di un’alterazione della sua produzione, sia in senso carenziale che iperfunzionale.

Nel caso di organi l’adeguatezza funzionale è facilmente valutabile e la misurazione di parametri biologici (nel nostro caso dai valori dell’ormone circolante alle misurazioni degli aspetti metabolici) soddisfa in pieno le esigenze cliniche.

Quando però ciò di cui ci interessiamo è una funzione volontaria, i parametri misurabili obiettivamente non sono sufficienti.

Essa non è infatti identificabile con il funzionamento dell’apparato al quale la si deve, né con quello dei singoli organi che lo compongono, non è frutto della sommatoria della loro attività e neppure della loro integrazione.

In quanto “volontaria” essa rappresenta la proiezione del soggetto sul mondo, sia quello esterno che quello interno.

Ciò non significa che le funzioni involontarie non siano influenzabili dalla situazione soggettiva, anche mentale, basti pensare alla tachicherdia suscitata dalla emozione o ai casi di arresto cardiaco da dolore psicologico. Ciò che intendo dire è che le funzioni volontarie sono espressioni dell’io del soggetto, cioè di come l’individualità si rende evidente attraverso un corpo che agisce. Esse sono aspetti dell’io corporeo individuale.

Valutare le funzioni è possibile?

È ovvio che nel valutare le funzioni volontarie, la voce o l’atteggiamento posturale ad esempio, ci sarà quindi sempre qualcosa che ci sfugge, il soggetto, e che si presenta a noi attraverso la funzione ma in essa non si esaurisce.

Senza una considerazione della individualità e della unicità del malato, se ci limitiamo alla raccolta dei dati obiettivi, conosceremo il quanto ma non il perché e solo parzialmente, e se siamo appositamente formati, il come.

La funzione non è una entità autonoma, dotata di indicatori propri. Essa è piuttosto un ponte, il luogo che inevitabilmente dobbiamo percorrere per andare ad abitare il mondo.

Caratteri della medicina funzionalista

La medicina funzionalista è un modo di fare clinica rispettoso di questo aspetto, consapevole che senza la testimonianza del soggetto non sarà possibile agire e conscia che, comunque, del soggetto noi apprezzeremo solo una parte, la visibile, e che molto ci rimarrà nascosto perché ignoto anche al soggetto stesso. La visione funzionalista investe tutti gli aspetti della pratica clinica.

Nella anamnesi raccoglie oltre alla storia patologica remota e prossima, notizie sulla vita, le abitudini, lo stile famigliare di comunicazione e relazione.

Nella formulazione della diagnosi è attenta a quanto portato dal paziente, alla autovalutazione funzionale, a ciò che il paziente pensa del proprio stato di salute.

Nella prognosi si informa di  come la malattia viene vissuta e delle ripercussioni che essa ha nel quotidiano.

Nelle indicazioni terapeutiche tiene in considerazione le aspettative, si interessa dello stile di apprendimento del malato nel caso venga proposto un iter riabilitativo, accoglie i timori e le perplessità relative alla farmacologia, formulando col paziente un progetto di guarigione che lo veda protagonista e non esecutore passivo di una prescrizione subita.

La medicina funzionalista sa che nessuno conosce meglio la propria malattia del paziente stesso e che non esiste percorso di guarigione che non venga discusso e infine scelto insieme.

Nella patologie che riguardano le funzioni volontarie non esiste strumento di analisi a cui affidare unicamente la diagnosi, non esistono indicatori obiettivi che siano esaustivi. Nella terapia non esiste protocollo applicabile a tutti i pazienti, esercizi validi per tutti.

La conseguenza di una tale visione, non necessaria per patologie unicamente organiche ma essenziale per la cura della forme disfunzionali, esige una preparazione umanistica del terapista e non solo strettamente scientifica, una formazione alle abilità relazionali e all’ascolto e un continuo, quotidiano lavoro su se stessi, spesso con un supervisore, spesso necessitante un percorso educativo che non ha termine e che collega e integra vari campi del sapere

 

 

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