La medicina funzionalista

Una definizione di eufonia

Da anni ho incluso tra le definizioni di eufonia l’espressione “eufonia funzionale”, indicando con essa la voce migliore ottenibile, stanti le condizioni del soggetto, al minor costo di esercizio. Con essa intendo ribadire che esiste, oltre al criterio acustico (voce senza rumori), a quello psicopercettivo (voce “bella e piacevole”) e a quello stilistico (voce prodotta secondo i canoni estetici dello stile), una eufonia rappresentata dalla capacità di emettere una voce il più efficace possibile  con il minimo dello sforzo e del rischio  e che questa eufonia è raggiungibile anche in situazioni patologiche. 

Questo criterio di eufonia non è astratto come gli altri, esso tiene in considerazione il soggetto, le sue condizioni psicofisiche e identifica, nel suo raggiungimento in terapia, il massimo risultato possibile per ciascun singolo paziente, permettendo quindi la dimissione anche in presenza di un segnale profondamente alterato. Fonare in modo funzionale, cioè economico ed efficace, nel realismo della consapevolezza dei limiti, è infatti un obiettivo sempre raggiungibile, mentre la pulizia di segnale e la piacevolezza del suono possono essere utopie demotivanti.

 

La disfonia disfunzionale

Nonostante  sia nato in campo neurologico/psichiatrico per indicare quei disturbi del comportamento che non sono sostenuti da alterazioni d’organo, il termine funzionale è stato anche dalla foniatria del secolo scorso utilizzato per indicare quelle situazioni nella quali una voce acusticamente sgradevole si accompagnava a una integrità dell’apparato che la produceva.

Vista però la possibilità che tale definizione venga utilizzata anche per identificare le forme psicogene di alterazione della voce, è più corretto, quando si parla di modalità potenzialmente lesive di utilizzo dell’apparato fonatorio, aggiungere il prefisso dis e indicare le disfonie non secondarie a una patologia organica come forme disfunzionali secondo la definizione di eufonia precedentemente illustrata, cioè prodotte con un utilizzo di apparato non economico e non efficace.

Il fatto che fonare in modo disfunzionale possa non solo dare come conseguenza una voce non eufonica ma determinare lesioni anatomicamente dimostrabili non vanifica l’appropriatezza dell’espressione, quanto piuttosto sminuisce l’utilità di un approccio solo organicistico al problema.

 

Medicina funzionalista

L’ottica clinica funzionalista non si limita a fare diagnosi di disturbo disfunzionale, con o senza espressività organica. Essa si occupa non solo della lesione, con la sua prorompente evidenza, ma prende in carico la funzione, cioè il modo in cui il soggetto parla o canta e quello con cui utilizza nel quotidiano e in ambito professionale la propria voce, considerando non solo gli aspetti fisiologici ma le intenzioni, i desideri, la vita emotiva e sociale del paziente.

La visione funzionalista della medicina è debitrice del pensiero fenomenologico del ‘900

Secondo la visione fenomenologica il soggetto, il malato e l’essere umano più in generale, non è identificabile con il solo corpo né con la sola mente. Distrutta una volta per sempre la visione dicotomica cartesiana, che distingueva la materia dal pensiero, attribuendo unicamente a questo secondo un valore, la medicina funzionalista:

  1. si oppone a una visione che privilegi il solo evento psichico, quasi che il corpo fosse il semplice substrato di una mente direttiva e imperante;
  2. contesta l’egemonia della EBM, che vede come dati di certezza i soli dati oggettivabili.

La visione fenomenologica della medicina ribadisce che non esiste soggetto che non sia nel mondo e che il darsi del soggetto (l’essere dell’uomo) è un inevitabile incontro con gli oggetti del mondo nel quale egli si trova ad abitare: l’essere è inevitabilmente un esser-ci.

 

La contaminazione inevitabile

La mente, la res cogitans cartesiana, è quindi obbligatoriamente contaminata dal mondo oggettuale ma non solo, essa è necessariamente in dialogo anche col mondo fisico individuale, rappresentato dall’oggetto/corpo del soggetto.

La vocologia funzionalista quindi prende in carico un malato nella consapevolezza che esso è compromesso col mondo oggettuale e inevitabilmente in relazione con le agenzie che nel mondo sono operanti: la famiglia, la scuola, il lavoro, la società in senso parcellare e globale.

Questo tipo di medicina cura non il solo apparato vocale (la struttura) e neppure la sola funzione (la vocalità), in quanto quest’ultima non è ipotizzabile  senza l’oggetto sul quale si applica.

La medicina funzionalista cura la relazione tra struttura, funzione e mondo, facendosi carico del mondo insieme al soggetto, nella sua duplicità di corpo e mente.

 

La definizione di funzione

Nel modello di questa medicina la funzione, nel nostro caso la vocalità, è identificata (si realizza e si può valutare) nella relazione che la struttura (il corpo) tesse con l’ambiente, in un rapporto bidirezionale nel quale non esiste funzione corporea che non si eserciti  sull’ambiente, così come non esiste ambiente che non modifichi la funzione e, tramite questa, la struttura.

Tutte le funzioni vitali ineriscono alla relazione tra struttura e ambiente e risentono dell’influenza reciproca dei due. Tale è la funzione cardiaca, basti pensare alle alterazioni del ritmo che accompagnano attività esercitate in situazioni stressanti e alle modificazioni ambientali (stile di vita, qualità dei rapporti, modalità di sussistenza economica…) che una patologia d’organo, quale una coronaropatia, induce.

La vocalità è modello ed emblema di questa natura della funzione, che si rivela non risiedere nel corpo/struttura ma nell’essere posta a ponte tra organismo e ambiente/agenzie.

La voce di tutti noi, nel suo prodursi in uno stile individuale, è frutto della nostra proiezione nell’ambiente, della relazione che intratteniamo con esso attraverso apparati anatomici.

Per questa ragione ogni cura della voce che esuli dal riconoscere il valore della funzione e si concentri sui soli dati corporei è destinata al fallimento.

La funzione vocale, nella sua accezione di relazione con l’esterno, supporta le necessità relazionali (intese ampiamente, da quelle sentimentali a quelle di pratica sussistenza) del soggetto e insieme rivela la natura stessa dell’individuo. In questa prospettiva il corpo è mezzo e strumento al quale la funzione deve il proprio esistere e sul quale fa ricadere i propri errori.

Il corpo è l’elemento necessitante per produrre la funzione ma la funzione non è il corpo. Essa non è neppure la mente.

La funzione agisce vicariamente alla mente sul mondo, colmando la povertà di strumenti dello psichismo che non si rivelerebbe senza corpo esercitante una funzione.

 

Logopedia e foniatria messe alla prova

Le conseguenze di questa visione nel campo della vocologia sono significative, ne elenco solo alcune.

a) E’ impossibile prendere in carico un soggetto portatore di disfonia se non in senso funzionalista, in una visione cioè aperta alla valutazione e alla riabilitazione di funzione e non solo alla eliminazione degli aspetti obiettivabili della patologia.

b) Non è pensabile una presa in carico senza la conoscenza delle agenzie, cioè del mondo del soggetto, con le quali il paziente interagisce. E’ nella relazione con esse che la funzione si esprime, si modella e, eventualmente, si altera. La terapia deve comprendere la riformulazione del rapporto tra soggetto e mondo e proporsi come obiettivo la armonizzazione tra i due.

c) Come è necessaria la revisione della relazione con il mondo esterno, così è obbligatoria una riarmonizzazione della relazione col corpo/mondo individuale. Ciò rende la terapia logopedica un viaggio all’interno del sé corporeo, finalizzato alla conoscenza e alla autopercezione, viaggio che rifugge da criteri imitativi o addestrativi e valorizza la capacità di autoascolto e di interiorizzazione delle esperienze mediate dalla fisicità.

d) E’ evidente che chiunque subisca un trattamento chirurgico alterante la struttura subisce un parallelo insulto alla funzione. Ciò determina un cambiamento della proiezione di sé nell’ambiente (mediata da un “corpo mutilato”) e rende necessario un aiuto fattivo nella riorganizzazione delle relazioni tra funzione e mondo, che non si limiti al recupero della sola valenza  comunicativa ma si riprometta un restauro degli aspetti ulteriori  (relazionali, lavorativi, espressivi).

e) La visione funzionalista pone serie problematiche in clinica nella raccolta delle evidenze, in quanto le evidenze sono per loro natura di tipo organico e il loro rilievo è strumentale, quindi riguardano un aspetto non marginale ma non esaustivo della patologia presentata. Uno sforzo è stato fatto in questo senso con la formulazione di questionari di autovalutazione (analogamente a come in campo internistico è stato fatto con la formulazione della scala di gravità del dolore).

f) La efficacia stessa della presa in carico non è valutabile con la sola remissione della eventuale lesione organica ma necessita di una rivalutazione funzionale, cioè di una ricostruzione di come e con quali mezzi il soggetto si relaziona al mondo e una valutazione della soddisfazione che ne deriva. In questo senso l’applicazione dei criteri validi per la medicina delle evidenze si scontra col valore che la funzione ha per il soggetto e con la necessità che sia il soggetto stesso, e non un sistema di analisi di segnale, a valutare l’efficacia del percorso intrapreso nel restaurare il legame, tessuto dalla funzione, tra struttura e agenzie .

 

Infine, ultimo ma più rilevante argomento, il corpo del soggetto è a sua volta mondo nel quale la funzione si esercita. L’oggetto corpo è insieme struttura di funzione e suo luogo di esercizio. La disfonia provoca una lacerazione in questa delicata relazione, sia perché il corpo/struttura non risponde alle esigenze di funzione non sostenendola nel suo relazionarsi obbligatorio con il mondo, sia perché il soggetto può non riconoscersi in un corpo/mondo verso il quale la funzione vocale potrebbe non desiderare più proiettarsi

 

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